Prefazione

Prefazione di Piero Bianucci

La letteratura italiana ha una forte tradizione di medici scrittori: tra i primi nomi che vengono in mente, Giulio Bedeschi, autore di “Centomila gavette di ghiaccio”, lo psichiatra Mario Tobino, il cardiologo Giuseppe Bonaviri, il chirurgo Luigi Rainero Fassati, Andrea Vitali, narratore di un microcosmo di provincia “alla Piero Chiara”. Non a caso da più di mezzo secolo esiste una Associazione dei Medici Scrittori (Amsi), suggerita nel 1951 dal chirurgo Achille Mario Dogliotti. Con questo libro Renato Ariano, primario di Medicina già noto per 200 lavori scientifici e alcuni libri attinenti alla sua specializzazione di allergologo, si aggiunge a pieno titolo al drappello dei narratori.
“Il vento è un’autostrada per pollini”, come fa intendere il sottotitolo “Viaggio avventuroso di un polline inquieto”, è un testo molto originale. Attinge alle conoscenze mediche dell’autore, perché è la storia di un granello di polline, e i pollini sono una diffusissima causa di allergie. Inoltre il polline protagonista del racconto appartiene al cipresso, e ciò ha anche un nesso autobiografico: Renato Ariano è un pioniere nello studio di questo particolare polline allergenico che fa sentire i suoi effetti “fuori stagione” perché la fioritura delle cupressacee è invernale.
Fin qui potremmo essere nel territorio del racconto didascalico, di una scrittura narrativa a fini divulgativi. In effetti è anche così: la storia narrata è tutta costruita intorno a dati scientifici, è avvincente come una fiaba anche per un ragazzo, e ricca di informazioni per chiunque soffra di allergie ai pollini.
Ma esistono altri piani di lettura. “Il vento è un’autostrada per pollini” ha valenza simbolica, contiene messaggi filosofici, estetici ed etici. In più,  nasconde tre piccoli enigmi che conferiscono al testo echi esoterici. Attenti, dunque, alle lettere  delle prime parole della prima e ultima frase dei vari capitoli. Dagli acrostici così generati emergerà un viatico esistenziale.
Leggendo “Il vento è un’autostrada per pollini” si penetra in un microcosmo della natura che ha come unità di misura le dimensioni di un granello di polline di cipresso, cioè 25-30 millesimi di millimetro. Basterebbe questo salto di scala a portarci in uno scenario fiabesco, insolito, esotico. Perché l’estremamente piccolo è di per sé un mondo pieno di sorprese. E poiché tra i medici scrittori grande attenzione alla natura, anche nei suoi risvolti atomici e molecolari, ha dimostrato Giuseppe Bonaviri, tanto che Vittorini lo definì un Lucrezio del Novecento, è a lui che potremmo accostare Renato Ariano. Ma procedendo nella lettura, il pensiero corre soprattutto a un certo Primo Levi, e precisamente al racconto “Carbonio” che conclude “Il Sistema Periodico”, affascinante autobiografia del chimico-scrittore torinese.
Nato nel cuore di una stella, l’atomo di carbonio di cui Primo Levi ricostruisce la storia è all’inizio prigioniero di una roccia calcarea. Un colpo di piccone lo libera e la scheggia di pietra che lo contiene viene calcinata in un forno, l’atomo di carbonio si unisce a due atomi di ossigeno e vola via nell’aria sotto forma di anidride carbonica. Seguiranno molte vicissitudini che non elencheremo. In sintesi, complici la clorofilla e la fotosintesi, l’atomo di carbonio, passando vicino a una foglia, verrà trafitto da un raggio di sole, staccato dall’ossigeno e fissato in una molecola di glucosio. La pianta è una vite, il glucosio finirà in un acino d’uva, l’acino in vino e il vino nel fegato di un bevitore. Poi tornerà ad essere anidride carbonica, nel vento che soffia su mari e montagne, e di nuovo lo catturerà la fotosintesi per incatenarlo nella cellulosa di un tronco di cedro. Qui un tarlo se lo mangia. Alla morte del tarlo, qualche batterio becchino rimette un’altra volta in circolazione il nostro atomo di carbonio, finché finisce in un bicchiere di latte da dove – facendo parte di una molecola di zucchero – passa nella cellula nervosa di un uomo che ha bevuto il latte. L’uomo è Primo Levi, e nel suo cervello l’energia della molecola di zucchero servirà a fargli mettere il punto finale del racconto e del libro.
Benché più concentrato nello spazio e nel tempo (poco meno di un anno, non ere cosmiche e geologiche), altrettanto avventuroso è il viaggio del granello di polline di cipresso. Nato tardivamente in aprile sotto una Luna crescente, il polline Zeffirino si tuffa nella luce e nelle fresche correnti d’aria primaverili. E’ felice, ma anche sprovveduto. A rassicurarlo arriva un polline di graminacea, molto più grosso ed esperto di lui. Si chiama Eudosso (nomen omen, se si guarda all’etimologia greca) e sarà il suo Virgilio. Con la sua guida Zeffirino affronta una serie di esperienze che alla fine appariranno come un percorso formativo. C’è l’incontro con una falena grigia, farfalla notturna attratta da una luce lontana, tentazione mortale. Poi l’incontro con le lucciole e con un’ape. Dell’ape Zeffirino rimane prigioniero, impigliato in peli collosi. Per altri tipi di polline sarebbe stato un colpo di fortuna, ma non per lui, polline di cipresso. Riesce a liberarsi, ma solo per cascare nella trappola che un agricoltore ha predisposto per raccogliere pollini da vendere ad aziende di prodotti dietetici.
Seguono incontri con acari, spore, formiche, gabbiani. Ogni incontro porta un messaggio morale. L’apparenza è ingannevole: immagine di purezza e libertà, i gabbiani vivono da spazzini in una discarica maleodorante. Gli acari sono sgarbati e volgari. Le formiche gentili ma anche spietate combattenti. Una rosa affascina Zeffirino e poi si rivela in tutta la sua vanità. Un ragno della specie Araneus diadematus, si presenta come rigoroso custode della legge ma agisce da traditore. Il pipistrello, a modo suo mostruoso, è invece creatura utile e gentile.
Tra i nemici del polline c’è anche l’uomo. Zeffirino se ne rende conto quando finisce invischiato nel campionatore di pollini di un medico allergologo. Le cose vanno meglio quando la sorte lo porta sulla sua cravatta: è immobilizzato dalle fibre del tessuto ma di lì può guardare il mondo con la stessa prospettiva dell’allergologo. Peggio vanno le cose quando, durante la visita a un malato di asma, viene aspirato nei bronchi del paziente. Inizia allora un tortuoso viaggio nel corpo umano, una navigazione in laghi e fiumi di catarro, fino alla fortunosa fuoruscita attraverso il naso dell’asmatico. Due stagioni sono passate e Zeffirino sente che l’ora segnata dal destino è vicina. Sarà un destino felice, il “giardino segreto”, scoprirà, è il giardino della vita.
Solo un allergologo che sia anche un biologo molto competente poteva scrivere una storia così precisa nei dati scientifici e così complessa nel cogliere gli equilibri della natura e dei suoi ecosistemi, trasformandoli in messaggi filosofici.
D’altra parte, benché causa di allergie talvolta gravi, abbiamo verso i pollini un debito di gratitudine per il contributo che essi hanno dato non solo alla comprensione della vita vegetale ma anche della materia inerte. E’ una vicenda che accennerò come piccola nota a margine del racconto di Renato Ariano.
Nel 1827 Robert Brown, botanico scozzese, osservava al microscopio polline estratto da fiori di Clarkia pulchella che aveva messo in sospensione in una goccia d’acqua. All’epoca si era già capito che il polline ha a che vedere con  la riproduzione delle piante ma non se ne conosceva ancora il meccanismo. Ciò che il botanico vide al microscopio era meraviglioso: i granelli di polline si agitavano, muovendosi a caso nella goccia d’acqua. Come se nuotassero, come se fossero animati. Robert Brown ne parlò come degli “atomi della vita”.
Sbagliava, ma, come spesso succede nella scienza, il suo fu un errore che portò a inattese conoscenze. Il botanico scozzese, che aveva studiato medicina senza arrivare alla laurea e aveva compiuto dal 1801 al 1805 un viaggio di esplorazione fino all’Australia tornandone con 3200 specie di piante sconosciute, non poteva immaginare che la cosa interessante non erano i ben visibili moti casuali dei granelli di polline, ma i moti invisibili di cui essi erano i “traccianti”: quelli delle ancora più invisibili molecole d’acqua.
Ciò che il botanico scozzese aveva osservato entrò nella letteratura scientifica come “moto browniano”. Per ottant’anni la danza disordinata dei pollini fu un enigma. Il moto browniano sembrava persino violare il secondo principio della termodinamica, un dogma assoluto della fisica. Ludwig Boltzmann, grandissimo fisico teorico, ci si arrovellò invano. In quegli anni si dibatteva sulla teoria atomistica. Boltzmann era un tenace sostenitore della realtà oggettiva degli atomi. Ernst Mach non credeva alla loro esistenza. Fu Albert Einstein, nel 1905, con un saggio sul “moto browniano” a dimostrare che i pollini in acqua svelavano l’esistenza delle molecole e quindi degli atomi in perenne agitazione termica (senza violare il famoso secondo principio). Mach subì un duro colpo. Boltzmann, che avrebbe potuto gioirne, nel 1906 si uccise per impiccagione in un albergo di Duino. Jean-Baptiste Perrin, chimico e fisico francese, completò l’opera calcolando in modo preciso il numero di atomi contenuto in una data quantità di materia. Il primo a immaginare quel numero era stato, nel 1811, Amedeo Avogadro.
Il polline feconda le piante. Ma ha fecondato anche la storia della scienza. Robert Brown credeva di aver visto gli atomi della vita e invece senza saperlo stava guardando gli atomi della materia. Un secolo dopo si scoprirà che nel liquido cellulare il moto browniano è il motore che rimescola le molecole promuovendo i processi biochimici. Materia che tiene accesa la vita.